giovedì 21 febbraio 2013

Per chi votare? Il dubbio mi assale

Si avvicinano velocemente le elezioni. Ormai a pochissimo dall'apertura dei seggi mi schiero con il nutrito gruppo degli indecisi. Che fare ? Chi votare ?
Non avendo parenti e/o amici da sostenere direttamente per amicizia - mi vedo costretto (come sempre) ad un voto dal taglio squisitamente politico, ovvero una scelta di idee e di programmi più che eventualmente di persone.
Personalmente non mi ritrovo appieno in nessuno dei programmi presentati ovvero mi ritrovo, per punti, in tutti. 
Ho fatto uno di quei test per valutare, in funzione di una serie di domande, dove uno si "colloca" politicamente, ma il risultato non mi è  sembrato un granché; probabilmente era mal costruito. 
Del resto i programmi dei Partiti sono la sintesi dei sondaggi rivolti a quelli che sono o pensano possano essere possibili elettori. In concreto una somma di risultati statistici. Gli unici che provano ancora ad ignorare i sondaggi e a resistere su delle posizioni di principio sono il Papa, i vescovi  e i loro corrispondenti delle altre religioni, ma pure le loro idee se finiscono in minoranza perdono forza, però questo è un altro discorso.
Ogni partito si è sforzato in questi giorni di apparire come l'unica scelta possibile per "salvare" il paese.
Ognuno poi ovviamente si sceglie "da cosa o da chi" salvare il paese. 
Monti vuole salvarlo dalla crisi/fallimento. 
Vendola vuole salvarlo da Berlusconi. 
Berlusconi vuole salvarlo da Monti, Bersani, Giannino, Grillo.
Grillo vuole salvarlo da tutti gli altri. 
Bersani vuole salvarlo punto.
Ovviamente nessuno di loro è in grado di salvare alcunché se non quel ristretto gruppo di persone che una volta elette si ritroveranno talmente in alto che qualsiasi alluvione, per quanto possa piovere ed allagare tutto, non potrà mai raggiungerli e coinvolgerli personalmente.
Gli eletti si salveranno (suona biblico vero), dalla crisi, dallo spread, dalla spending rewiew, dai tagli, dalla disoccupazione, dagli aumenti, dal rosso in banca, dalla cassa integrazione, da tutto. 
Una morale "altruista" vorrebbe che i primi a salvarsi si impegnino a salvare anche gli altri. Quindi se  parcamente punto alla mia personale salvezza ed a a quella delle persone a me vicine devo individuare chi, uno volta in salvo, abbia l'animo di intervenire, di muoversi, per gli altri (tra cui il sottoscritto).
Devo votare, eleggere, qualcuno che, dato per scontato che una volta eletto punterà a consolidare la sua personale posizione e quella di quelli a lui più vicino, subito dopo inizi a lavorare per gli altri, per tutti.
Avendo premesso a tutto un base altruistica devo escludere a priori chi altruista non è per Statuto tipo la Lega (prima il Nord... io sto a Roma, quindi...). 
Il PdL è altruista ? Dopo aver sistemato le sue cose Berlusconi penserà a me ?  Pur essendo Berlusconi generosissimo (forse più con le donne che con gli uomini) non lo vedo in alcun modo avvezzo al sacrificio (perché bisogna un pochino sacrificarsi per fare del bene agli altri). Ne lui ne tutti i suoi amici e sostenitori mi sembrano campioni di generosità (no tasse, non crisi, no poveri, no patrimoniale, ecc.).
Monti è i suoi sono una compagine altruista ? Non è forse Monti qualcuno che già salvo di suo per una serie di fatti (ricco, senatore, ecc.) con la sua candidatura riuscirà a "salvare" molte persone a lui vicine e alle quale deve qualcosa ? Dopo di che riuscirà, salvate banche, banchieri e tutti i suoi grandi elettori a pensare anche a  tutti gli  altri ? O non avrà tempo.
Bersani ? A parole sembra ben intenzionato a fare la cosa giusta ma, sempre a parole, sulle buone intenzioni Grillo lo supera alla grande. Tra l'altro Bersani, rappresentando un grande partito, ha veramente tante tante persone da salvare. Dovrà fare delle scelte. Non è che fra tutti si dimentica proprio di quelli come me ?
I Grillini, nuovi nuovi in Parlamento, saranno in grado di ricordarsi degli altri, dei tantissimi, rimasti fuori oppure si fermeranno a guardare inebetiti il panorama che si vede da lassù, avvolti nelle poltrone, abbagliati dagli stucchi dorati (la location non è male).
E poi ci sono i temi etici, i diritti, l'Europa, l'eutanasia,ecc. ; domande che trovano nei Partiti risposte sempre diverse eppure sempre uguali, in generale contraddittorie. I sondaggi creano un sacco di problemi ed alcune posizioni,  che puntano ad un certo elettorato, rischiano di allontanare gli altri, tanto che le posizioni dei partiti maggiori quando non espresse sono sicuramente poco chiare. 
Non dimentichiamoci poi del "voto utile". Altra questione dovuta al sistema elettorale che spinge a votare per i Partiti maggiori, limitando in concreto la scelta. Un singolo voto conta già poco, se poi uno lo spreca pure, tanto vale rimanere a casa.
Ho così condiviso le mie incertezze... probabilmente risolverò il tutto solo all'ultimo momento, in cabina elettorale.
Ma invece di eleggerli i parlamentari, non sarebbe meglio sorteggiarli all'anagrafe tra i cittadini maggiorenni ? Il caso sarebbe sicuramente imparziale, non influenzabile, difficilmente corrompibile, ed avremmo in Parlamento, nel bene e nel male, un campione statisticamente rappresentativo del paese (ci potrebbero capitare statisticamente - tasso di criminalità 0,75% - anche 7 o 8  parlamentari sui 1000 con  problemi con la giustizia, ma me farei una ragione).

venerdì 1 febbraio 2013

Sempre meno laureati

Notizia di questi giorni è il costante calo di laureati nel nostro paese. Ovviamente si registra nel contempo la diminuzione di professori ed il generale de-finanziamento delle università e della ricerca. Se studenti e professori sono diminuiti del 20% probabilmente anche la spesa ha seguito un andamento simile, comunque l'evoluzione dei costi in generale sempre aver penalizzato gli investimenti con il risultato di avere università con sempre meno insegnanti, attrezzature, studenti.
Il primo grido che si è levato è stato: "più soldi per l'università" (qualsiasi cosa accada nel nostro paese la prima richiesta è sempre quella).
Altre statistiche ci dicono che nel nostro paese non c'è lavoro per i laureati (nemmeno per gli operai a dire il vero). C'è richiesta di tecnici specializzati, chiamiamoli "superdiplomati" ovvero di figure più che idonee a svolgere un certo lavoro ma che costino il meno possibile. Va da se che un laureato è un ottimo operatore di call center, la sua laurea viene declassata a "superdiploma".
Allo stesso tempo la laurea nel nostro paese è condizione spesso non necessaria per raggiungere posizioni elevate. All'estero invece i nostri laureati trovano lavoro e fanno carriera a conferma che le nostre università sono comunque in grado di produrre eccellenza, ovvero laureati eccellenti (merito anche delle qualità individuali, spesso sovrabbondanti nel nostro paese). 
Tentiamo una sintesi:
Il valore della laurea è molto scarso nel settore privato (non distingue, non discrimina). Amicizie, parentele, conoscenze, possono tranquillamente controbilanciare qualsiasi brillante curriculum accademico. Rimane un pezzo di carta il cui valore è variabile, una sorta di biglietto di invito, se ne sei in possesso spesso vale poco (vedi che fanno entrare pure chi non ce l'ha), se non ce l'hai vali poco tu, dipende dal buttafuori alla porta del locale.
Nel settore pubblico è solo un indispensabile titolo di accesso (una specie di biglietto di entrata al cinema.. si strappa all’'ingresso.. i posti sono numerati… è bene conoscere la bigliettaia per non trovarsi nelle ultime file). Una volta entrati altri meccanismi permettono di guadagnare i posti migliori.
Nelle professioni vale quanto detto nel settore pubblico con l’'aggravante che si tratta di lavoro privato e quindi il biglietto è senza numero e non da neanche diritto a sedersi (capace che entri, resti in piedi e non vedi nulla…; importantissimo conoscere qualcuno delle prime file e saper sgomitare).
La laurea pur costituendo effettivamente in molti casi una barriera all’'entrata (se uno ne è privo,… ma si sa.. i titoli, se proprio serve, in qualche modo si possono acquisire), non garantisce ne un lavoro, ne del lavoro, ne un carriera, ne un certo livello di reddito. In concreto un investimento molto rischioso.
In generale quindi studiare non conviene…, o comunque conviene poco a molti e molto a pochi, ed essendo l'offerta di qualsiasi bene o fattore sempre elastica sul lungo periodo, ad un calo della domanda o comunque dei prezzi non può che seguire una diminuzione dell'offerta. Aggiungiamo che questa diminuzione dell'offerta è stata in qualche modo politicamente auspicata con l'innalzamento delle barriere all'accesso ai corsi di studi, questo attraverso l'aumento delle tasse universitarie senza il finanziamento di borse di studio (tagliamo fuori le fasce più povere, art. 34 della Costituzione... marameo); ma anche con l'introduzione del numero chiuso e di un sistema di selezione (quiz  per tutti) che ha già dimostrato di essere assolutamente inadatto, inadeguato e sbagliato visto che la percentuale di insuccesso (iscritti mai laureati) non è variata, per non parlare degli scandali e del "mercato" (corsi, testi, ecc.) che questo sistema ha messo in piedi.
Per concludere, la statistica conferma nonostante tutto che ancora esiste una proporzionalità tra il titolo di studio ed il reddito pro-capite. Mediamente i laureati guadagnano di più dei diplomati, ed i diplomati più del solo obbligo scolastico, ma allo stesso tempo si osserva che i titoli di studio si "tramandano" in genere da padre in figlio. Viene da domandarsi se è laurea che permette un maggiore reddito e benessere o al contrario è il benessere che implica la laurea ? Se, come penso io, la condizione familiare è sempre più una importante premessa per il raggiungimento di titoli di studio superiori una certa responsabilità per la diminuzione dei laureati è certo attribuibile all'impoverimento delle famiglie italiane, che non possono più permettersi di far studiare i figli oppure preferiscono di non investire nello studio (visto il rischio di insuccesso, vedi call center) e preferiscono favorire altre iniziative come il commercio, il lavoro autonomo, l'artigianato e anche, come giornali e TV spesso sottolineano, un ritorno alle attività agricole.

lunedì 8 ottobre 2012

Facce nuove in politica non ce ne sono

Ci si domanda come mai non si riescono a trovare facce nuove per la politica che possano considerarsi realmente delle risorse per il paese, qualcosa di nuovo e di affidabile al tempo stesso, che non sia legato a doppio filo al passato, e costituisca una vera rottura.
Quando si dice "sono sempre gli stessi" si ribadisce che anche nel caso di un cambio generazionale ci ritroviamo i figli, i nipoti, dei personaggi del passato, in qualche modo "figli d'arte".
Non meraviglia nessuno il fatto che come le professioni " d'arte " (penso agli artigiani, fabbri, falegnami) sempre con più difficoltà passano da padre in figlio,  le professioni di potere e di prestigio di contro vengono letteralmente trasmesse in regime di successione ereditaria (non escludendosi conflitti tra eredi); quello che è di interesse trasferire non è in realtà "l'arte" (la capacità di svolgere bene una certa attività)  ma il "titolo", potremmo dire nobiliare, con tutti gli annessi e connessi, potere, prestigio, e conseguentemente ricchezza. L'Italia in questo è ferma al medioevo, o comunque è ferma ad un periodo pre-umanistico; in concreto il sistema delle caste indiane, da noi non scritto, è in realtà concretamente attuato, ed è uno dei motivi per cui il nostro paese non è in grado di esprimere al meglio le sue potenzialità.
Esiste, oltre al ben noto soffitto di cristallo che impedisce alle donne di salire ai vertici, un sistema di gabbie di vetro che congelano le dinamiche sociali rendendo difficile gli spostamenti in qualsiasi direzione. Ovviamente questo non è generalizzato, ci sono numerosissime eccezioni e l'impegno, la perseveranza, e anche una buona dose di fortuna, permettono di poter individuare e raccontare storie di successo (o anche di clamorosa rovina) che alla fine evitano al paese di sprofondare nell'arretratezza di un moderno medioevo, anche se, purtroppo, una sorta di memoria ancestrale regola la vita del paese, e solo eventi eccezionali (guerre, cataclismi) sono in grado di incidere sostanzialmente. Per quanto riguarda la crescita, la ricchezza individuale, si è osservato un arricchimento in termini assoluti, ma in termini relativi probabilmente i rapporti non sono cambiati molto negli ultimi 50 anni, la distribuzione  - o meglio l'allocazione - della ricchezza in sostanza, quando più quando meno, non è cambiata.
La Scuola, l'Università, che rimangono forse l'unico strumento in grado di far attraversare le pareti e i soffitti di cristallo (mai quanto però un buon matrimonio), spesso non riescono allo scopo per essere loro stesse strutture rinchiuse all'interno di sistemi chiusi; occorre entrare in "certe scuole" per riuscire ad entrare in "certi ambienti" indipendentemente poi dal merito individuale, che potrà tutt'al più permettere dei distinguo, senza essere però quella la chiave che apre le porte.
In questo contesto  l'accesso all'attività politica avviene tramite percorsi molto stretti; percorsi attraverso i quali si viaggia accompagnati ed aiutati da un sistema di relazioni sempre più spesso prevalentemente familiari; in tal senso diventa un'arte, un mestiere da trasmettere di padre in figlio.
Il problema di fondo è che la politica non è un mestiere che si può imparare in bottega; si può sicuramente imparare a muoversi nelle stanze della politica ed ad utilizzarne gli strumenti; ma le idee, la visione del futuro, il senso di giustizia, i valori, le capacità; quelli sono qualcosa di più complesso che si costruisce negli individui attraverso la propria storia personale, attraverso i successi e le sconfitte.
Nella migliore delle ipotesi vediamo in politica solo dei buoni artigiani, ma il genio, il grande artista, fa grandissima fatica ad affermarsi in un settore così chiuso, e spesso rinuncia in partenza.
Il denaro, infine, permette l'affermazione in politica anche di chi non dispone di una familiarità, situazione questa in alcuni casi addirittura peggiore; questo perché se il figlio del falegname bene o male sa cos'è il legno e come lo si lavora e perché,  chi compra la falegnameria  la vede spesso come un investimento da far fruttare mettendo in secondo piano la qualità del mobilio prodotto.


venerdì 20 luglio 2012

A vote mi rileggo

Se c'è una cosa buona in un blog quella è la possibilità rileggersi.
Mi scopro così sempre un po' troppo equilibrato, misurato.
Sarà l'età.

martedì 7 febbraio 2012

Il posto fisso

Due righe sul posto fisso.
Laureato molto giovane e molto bene in ingegneria ho fatto per 7 anni, dal '92 il '99, il libero professionista precario, prima come co.co.co. poi "a fattura" come "consulente" presso uno studio di progettazione, una società di consulenza, un'impresa, il tutto condito con un po' di attività libera professionale "povera", "minuta", quella dove le tariffe minime non si applicano da sempre. Responsabilità piena e prezzo scontato.
Dal '99 sono un ministeriale, il "posto fisso" per antonomasia.
Svantaggi: Meno soldi, perdita di autonomia, di libertà, di "prestigio" sociale.
Vantaggi: Dormo decisamente meglio. Ho una busta paga (se hai una busta paga, ti prestano i soldi). Mi versano molti contributi e (forse) un giorno andrò in pensione (ad arrivarci vivo).
Chi parla male del "posto fisso" (già.. è proprio noioso, accanto a mamma e papà) lo fa perché essenzialmente ce l'ha già e non ha mai conosciuto alcuna "precarietà" o incertezza (e spesso i figli li ha già "sistemati" al sicuro e  bene in vista). Esattamente come tutti i nostri ministri... che vengono tutti da situazioni molto, molto, ma molto, stabili (professori, prefetti, militari, dirigenti pubblici).
Siamo passati da una visione distorta della realtà (Berlusconi, troppi soldi), ad un'altra (i professori, troppa scienza).
Ma un po' di sano buonsenso no? Proprio non ce lo meritiamo ?
Temo proprio che siamo finiti dalla padella direttamente nella brace.

martedì 27 dicembre 2011

Governo Monti Fase 2. Spunti

Qualche idea per il Paese. A cominciare da quelle più in voga.
Farmacie. La farmacia è molte cose. Nasce come laboratorio del farmacista che in tal senso è quasi un medico ma finisce per essere una sorta di pick and pay del farmaco, ovvero solo un negozio. Quindi bisogna distinguere attentamente dove finisce il farmacista e dove inizia il commerciante. La parafarmacia è un ibrido che vede nella presenza del farmacista un distinguo rispetto allo scaffale del supermercato... ma attenzione... la sua attività si suggerimento e consiglio è in pratica solo quella di una "supercommessa". 
Soluzioni:  I farmacisti si occupano solo ed esclusivamente delle medicine soggette a controllo medico. Tutto il resto (automedicazione, ecc.) è solo commercio. Libertà e concorrenza assoluta. Tutti i farmacisti "patentati" (ovvero esaminati, tirocinati, valutati, abilitati che dir si voglia) sono uguali e l'attività professionale è libera. Libera farmacia in libero Stato. Come gli ingegneri, gli architetti, i ragionieri, ecc.
Notai. Figura superata. Nasce in una società analfabeta a tutela e conservazione del diritto  privato (si pensi agli archivi notarili, al repertorio degli atti, ecc.). Oggi l'informatizzazione spinta li ha trasformati in un ufficio di coordinamento di figure tecniche a cui tocca il lavoro (geometri, segretarie, agenzie pratiche). Poi se qualcuno sbaglia è sempre colpa dei contraenti (hanno firmato.. quindi) che non beneficiano spesso neppure dell'attività consulenziale che giustificherebbe in parte le esose parcelle. 
Soluzioni: Abolizione dell'attuale sistema e trasformazione dell'attività notarile in una attività ordinaria aperta a tutti gli avvocati con abilitazione specifica.
Professioni liberali in genere. Ingegneri, Avvocati, Commercialisti, Consulenti. Le professioni "protette" hanno ancora senso. Il termine protette però non va riferito ai professionisti ma alla popolazione. Si tratta di attività in genere pericolose e dannose se svolte da incompetenti e/o imprudenti ed occorre proteggere la cittadinanza attraverso delle barriere all'accesso e dei controlli severi. Gli ordini si sono rivelati non in grado perché soggetti alla deriva protezionistica e lobbistica di qualsiasi gruppo omogeneo. 
Soluzioni: abolizione degli ordini ricondotti a club,circoli, o associazioni volontarie in genere. Le abilitazioni, gli esami, i tirocini, tornano nelle mani dello Stato che rilascia le abilitazioni (il caro esame di Stato), cura la formazione, gestisce i tirocini (abbina tirocinante e tutor, l'attività di tutoraggio è obbligatoria e gratuita e, per bilanciare, i tirocini - comunque brevi - non vanno remunerati). Tariffe: tutte (ma proprio tutte) abolite ma vanno definiti dallo Stato degli standard minimi ed un sistema di valutazione/giudizio/arbitrato a tutela del cliente/consumatore ed in grado di valutare la congruità delle parcelle e la qualità del lavoro.
Lavoro pubblico: Troppe distinzioni e diversità all'interno dell'universo del pubblico impiego. Sacche enormi di privilegio fanno da contraltare a situazioni di degrado e di abbandono. L'accesso attraverso concorso  è stato smentito dai fatti e dalle eccezioni da essere esso stesso ormai eccezione. Accanto a carriere fulminanti si assiste a situazioni di trentennale immutabilità di ruolo, funzione, stipendio.
Soluzioni: Azzeramento di tutta la normativa specifica e di settore, ridefinizione in senso unitario del lavoro al Servizio dello Stato e della collettività in genere. Contratto, o Statuto Unico del Lavoro Pubblico, senza distinzioni di amministrazione, ente, arma, divisione, ospedale, istituto, e costruzione del percorso di carriera unico del lavoro pubblico con previsione di modalità di ingresso e di progressione e possibilità di passaggio a pari condizioni da un amministrazione all'altra. Costruzione della tavola di corrispondenza unica che definisce il sistema gerarchico delle amministrazioni pubbliche attraverso la quale un determinato livello possa esistere, ed essere immediatamente confrontato, con gli altri in tutte le amministrazioni pubbliche. A parità di livello pari stipendio in tutta la Nazione. Inoltre: pari lavoro-pari stipendio. Una segretaria è una segretaria in tutto il paese e non ci può essere differenza tra Pantelleria e Piazza Montecitorio. Possibile, anzi fondamentale, la contrattazione decentrata di sede organizzata al livello più basso possibile (produttività dell'ufficio) con attribuzione di specifiche responsabilità alla dirigenza. Va prevista la possibilità di regresso nella scala gerarchica (retrocessione). Abolizione delle incompatibilità oggettive (che non sono uguali per tutti e dove il sistema delle eccezioni risulta deleterio) e massima attenzione su quelle soggettive che palesano il conflitto di interessi. Quindi libertà di incarico, di secondo lavoro, di iniziativa privata, imprenditoriale, purché in assenza totale e assoluta di un qualsiasi conflitto con il lavoro pubblico.Tutte le attività secondarie vanno dichiarate e denunciate e pubblicate in quanto libere e oneste (e tassate ovviamente). Questo permetterà a molti di fare onestamente ripetizioni scolastiche,pulizie, aprire un negozio, produrre vino, ecc.


giovedì 22 dicembre 2011

Articolo 18 .... ma mi faccia il piacere !

Si è aperta un'ingiustificata questione sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Leggiamo il pezzettino incriminato: "....il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro." 
...senza giusta causa o giustificato motivo..... 
Io la interpreto che è possibile licenziare chiunque purché se ne abbia una motivazione concreta. Il giudice decide sulla bontà (giustezza) della motivazione. La domanda che si pone è perché si dovrebbe licenziare qualcuno senza motivo ? Infatti c'è sempre un motivazione per un licenziamento e lo scontro che avviene è tra due discrezionalità: quella del datore di lavoro che ritiene giusto il licenziamento per le "sue" ragioni e quella del giudice che, prendendo i considerazione le posizioni del lavoratore, deve decidere se il datore di lavoro abbia o no fondati motivi.
Lo Statuto tutela il lavoratore principalmente da quelle che potrebbero essere motivazioni pretestuose, umorali, che il datore di lavoro potrebbe opporre; d'altro canto nessuna tutela è ovviamente garantita al lavoratore pigro, improduttivo, truffaldino che, a ragione, può essere licenziato.
Il problema è forse quello che nel nostro paese, forse in considerazione della natura del tessuto produttivo, sempre troppo di stampo padronale, proprietario più che imprenditore, le ragioni concrete, aziendali, produttive con grande facilità si mescolano a fattori pretestuosi, personalistici, con la conseguenza che si cerca  regolarmente a licenziare per ottimi motivi la persona sbagliata, o al contrario si utilizzano motivazioni deboli per  soggetti che invece meriterebbero, anche a tutela dei colleghi, di essere defenestrati.
Credo che l'articolo 18, non solo non può essere toccato, ma addirittura dovrebbe essere esteso a qualsiasi lavoratore dipendente, precariato incluso. Non si capisce infatti la discriminazione tra piccole e grandi aziende, crea differenti diritti tra lavoratori che hanno un vago sapore di incostituzionalità (vedi art. 3 e 4 della Costituzione) o comunque di mancata - o incompleta - attuazione del dettato costituzionale.
Diversa è la questione della giustizia. La discrezionalità del giudice nel valutare le motivazioni dovrebbe essere esercitata in tempi rapidi, rapidissimi. Nel lavoro il tempo è, necessariamente, denaro. L'incertezza costa, e molto, a tutti, lavoratori e imprese. Forse velocizzare e rendere tempestivo l'intervento del giudice, con forme processuali innovative, espressamente mirate a contenere i tempi nell'ordine di pochi giorni, settimane al massimo, potrebbe forse risolvere alcuni dei problemi che l'articolo 18 sembra costituire per l'aumento della dimensione delle aziende che non assumono perché poi non possono licenziare.
Un processo rapido (anche una sorta di arbitrato del lavoro), in cui il giudice tenga conto, magari affiancato da un tecnico, dei fattori aziendali, produttivi, in concreto di quelle che possono essere le giuste motivazioni dell'azienda, e dall'altro lato anche della posizione del lavoratore - comunque da tutelare, potrebbe risolvere alla radice molti problemi del mondo del lavoro; questo addirittura con maggiori tutele per il lavoratore e garanzie per l'impresa; magari riconoscendo la possibilità di reintegro eventualmente condizionato a comportamenti attivi del lavoratore, da valutare caso per caso.
Un imprenditore, anni fa, paragonava un'assunzione ad un matrimonio. In certi casi, diceva, decisamente squilibrato (un po' come in certi matrimoni) per i rischi assunti  in modo diverso dalle parti. Come nelle separazioni e nei divorzi, anche nei licenziamenti, ognuno ha le sue ragioni. Il buon senso vorrebbe che sia molto meno difficile, meno traumatico, interrompere un rapporto di lavoro, che divorziare. Oggi, spesso, non è così.

giovedì 15 dicembre 2011

Lo sciopero: roba superata ?

Tutti i giorni le organizzazioni sindacali parlano di sciopero, minacciano lo sciopero, proclamano lo sciopero. In altri casi sono direttamente il lavoratori che entrano in sciopero per i più diversi motivi. Perché si sciopera? Ovvio, per protestare e cercare di ottenere dalla controparte qualcosa che si desidera in termini di miglioramento delle condizioni di lavoro, di paga, ecc. 
Quindi abbiamo in gioco teoricamente due attori, i lavoratori e la controparte (teoricamente le imprese) e lo sciopero dovrebbe costituire un'azione anche gravosa per i lavoratori ma comunque in grado di intervenire sulla controparte in termini concreti: in parole povere se i lavoratori scioperano la controparte subisce (dovrebbe subire) un danno concreto. Se in un'attività produttiva del settore agricolo o manifatturiero il lavoratori si fermano si assiste ad un concreto blocco della produzione, alla perdita o all'ammaloramento dei frutti, al fermo della catena di montaggio, all'impossibilità di consegnare la merce ed in generale di onorare i contratti. I lavoratori perdono lo stipendio ma l'impresa perde "tutto il resto".
In quelle attività produttive dove la giornata, o le giornate di sciopero, comportano un danno immediato in termini economici lo sciopero rimane, nell'ipotesi di realtà produttive forti e redditizie, probabilmente uno strumento di una qualche efficacia. Se ci si pensa un attimo lo sciopero, il diritto di sciopero, nasce in queste realtà, nell'agricoltura, nell'industria estrattiva o di processo, dove fermarsi è sempre molto costoso per tutti.
Mi domando se oggi, in un mondo molto diverso da quello in cui lo sciopero ha avuto origine ed attuazione come strumento di lotta, questo sia ancora qualcosa di attuale ed efficace. Facciamo qualche analisi:
Sciopero in agricoltura: ha senso fino a quando i prodotti non raggiungono i frigoriferi. A quel punto i tempi si dilatano, le consegne possono essere comunque effettuate almeno finché non si esauriscono i magazzini (tutta la filiera). Occorrono molti giorni prima che certi prodotti inizino a mancare e comunque spesso si tratta di prodotti sostituibili con altri.
Sciopero nell'industria : ha senso solo quando non si fa, ovvero nei periodi di espansione, di forte domanda, quando il blocco della produzione si traduce in riduzione di vendite. Nei periodi, come l'attuale, probabilmente è utile a svuotare qualche magazzino stracolmo e a ridurre i costi di aziende in difficoltà. Rimane incisivo, ma si tratta di posizioni privilegiate, l'interruzione di un certa attività ne danneggia altre con un evidente danno economico.
Sciopero nei trasporti e negli altri servizi pubblici essenziali (sanità): è quello che realizza uno spostamento del danno dalla controparte (che è però in genere pubblica) sulla popolazione. E' uno sciopero molto dannoso ed interviene su meccanismi complessi in cui l'utenza viene danneggiata ingiustamente per fare pressione - attraverso la politica che è costretta ad intervenire a tutela dell'interesse pubblico - sulla controparte (l'azienda pubblica,  ferrovie, ecc.). Lo sciopero in questi settori è un'arma talmente forte e squilibrata che è limitato per legge. E' mia opinione che, visto il gran numero degli scioperi specialmente nel settore dei trasporti, questo sia oggi sproporzionatamente vantaggioso per i lavoratori e gli addetti del settore (in grado di ricattare l'interlocutore a fronte di un costo/rischio minimo). Probabilmente andrebbe del tutto vietato lo sciopero assimilando certi settori alla difesa ed alle forze dell'ordine.
Sciopero nei servizi: dipende molto dalla natura del servizio. Nelle attività a maggiore contenuto intellettuale l'interruzione del lavoro, se non prorogata nel tempo, non è in grado di fare molti danni alla controparte. Nel commercio visto la dimensione media delle strutture è sconosciuto se non nella grande distribuzione, dove avrebbe efficacia solo se riuscisse a spostare il danno sulla popolazione (ma dovrebbero scioperare "tutti" i supermercati, e rimarrebbero comunque delle alternative). 
Sciopero nella Pubblica Amministrazione: se si è in presenza di attività rivolte al pubblico (p.es. uffici postali, tribunali) si effettua lo spostamento del danno sull'utenza e si ricade, con minore forza per il minore impatto, nel campo dei servizi pubblici essenziali . Nelle altre attività amministrative lo sciopero è solo un risparmio per le casse dello Stato (ne più ne meno di un'azienda in crisi e con eccesso di manodopera), qualche giorno di fermo non è proprio un problema.
Sembrerebbe che lo sciopero sia uno strumento efficace per chi già si trova in un posizione molto forte, con compiti importanti e posizioni chiave (spesso già ben tutelate e pagate, si pensi ai macchinisti o ai piloti). Vince chi ha la forza del numero e dell'esclusiva, per i piccoli e meno tutelati nell'universo della PMI italiana suona solo come un'autoriduzione del salario o dello stipendio. 
I precari, i vari co.co.pro., gli interinali, i part-time, si sa, non scioperano. Non scioperano perché poco tutelati, mediamente poveri (una giornata persa "pesa"), e spesso non indispensabili o comunque rimpiazzabili.
Ma se il lavoro nuovo e moderno è tutto all'insegna della flessibilità e della precarietà ci saranno ancora scioperi in futuro?

venerdì 25 novembre 2011

Tutta colpa della bolla

Immaginiamo un sistema economico chiuso piccolo quanto vogliamo, un modellino dell'economia globale a scala molto ridotta, un'isola al centro del Pacifico. In questa microeconomia abbiamo a scala ridotta tutti le componenti dell'economia mondiale. Abbiamo gli scambi, la produzione (pesca, agricoltura, ecc.), una moneta (conchiglie, sassi dipinti... fate voi), dei risparmi, una dotazione di capitale (immobili, attrezzature, ecc.) e così via dicendo. La quantità di moneta è fissata da anni ed ha volume tale da permettere che la quasi totalità degli scambi avvenga in moneta, questo perché l'isola anche se piccola è abbastanza grande, e comunque con caratteristiche tali da far funzionare un'economia di libero mercato. Per semplicità diciamo che sull'isola ci sono 1000 case che valgono 1000 conchiglie e che la popolazione dispone di moneta in media per 1000 conchiglie a famiglia. Se vendo una casa la mia famiglia disporrà di 2000 conchiglie e di contro un'altra famiglia avrà due case e 0 conchiglie. In ogni momento c'è sull'isola chi ha casa più grande e meno conchiglie oppure l'inverso e c'è pure chi ha sia case che conchiglie (i più ricchi) e chi non ha casa e poche conchiglie (i più poveri) ma "in media" la situazione è tale che c'è qualcuno che ha risparmiato le 1000 conchiglie per comprare e qualcuno che è disposto a vendere la casa per 1000 conchiglie.
In questo sistema equilibrato improvvisamente avviene un cambiamento, senza apparente motivo e molto rapidamente il prezzo delle case raddoppia. Ora occorrono 2000 conchiglie per comprare una casa anche se la popolazione dispone ancora in media di sole 1000 conchiglie a famiglia. Che succede:
- chi dispone in quel momento di più case che conchiglie diventa teoricamente più ricco;
- chi stava risparmiando conchiglie diventa improvvisamente più povero e costretto ad accantonare il doppio per arrivare ad acquistare casa e pensa eventualmente di indebitarsi;
- chi dispone di conchiglie e non ha bisogno di comprare casa è disposto a prestarle, ma visto che molti hanno bisogno di conchiglie chiede interessi via via più elevati al crescere della domanda e del rischio.
In concreto le conchiglie non bastano più per tutti ed il numero dei poveri (senza casa e senza conchiglie) non fa che aumentare a vantaggio di chi, avendo ad esempio due case, si ritrova vendendone una con una casa e 2000 conchiglie (1000 conchiglie in più che ovviamente a qualcuno mancano essendo fissato il quantitativo di conchiglie). Ovviamente chi sta in mezzo, chi ha casa ma anche un po' di conchiglie, diciamo una casa e 1000 conchiglie (3000 conchiglie di patrimonio complessivo) non vede nell'immediato una effettiva variazione ma qualsiasi variazione sul fronte immobiliare incide in maniera doppia sulla sua disponibilità di conchiglie e lo obbliga, se ad esempio vuole comprare, a guadagnare di più  vendendo più cari i suoi prodotti (pesce, grano, ecc.); questo causa un aumento dei prezzi generalizzato "per trascinamento" dovuto all'aumento dei prezzi delle case. Alla lunga l'iniziale disponibilità media di 1000 conchiglie a famiglia non basta più perché l'aumento dei prezzi supera le disponibilità delle singole famiglie; ad esempio quelle più povere non hanno la disponibilità  di conchiglie necessarie per comprare alcuni prodotti, e se ne vendono meno. L'economia rallenta e si assiste ad una concentrazione della ricchezza a favore di chi al momento de repentino cambio di valore degli immobili disponeva già di una maggiore ricchezza, inizia a accumulare conchiglie (anche attraverso gli interessi su quelle che presta) in quantità tale da non riuscirle più a spenderle. Ma non può neanche prestarle a cuor leggero perché aumentano sempre di più i prestiti che non vengono restituiti; quindi quando presta le sue conchiglie chiede interessi sempre più alti.
Come si esce da questa situazione:
a: dimezzando il prezzo delle case
b: raddoppiando la quantità di conchiglie disponibili
(Entrambe cose impraticabili).
Si potrebbe osservare che dove la disponibilità di conchiglie per gli scambi scendesse al di sotto di un certo livello di guardia (perché tutte chiuse nelle casse di un numero limitato di persone), in alcuni gruppi poveri di conchiglie potrebbe essere necessario, per permettere gli scambi, tornare al baratto o all'utilizzo di prodotti come monete sostitutive. In quest'ultimo caso i prodotti (p.es. sacchi di farina) potrebbero "ampliare" in senso lato la "liquidità disponibile".
Per arrivare ad una conclusione sarei portato a pensare che l'aumento del valore degli immobili (la ormai famigerata "bolla immobiliare") è la principale causa dell'attuale crisi economica, essendo risultato in seguito, con ogni probabilità, insufficiente lo stock di moneta disponibile nelle tasche dei cittadini con una conseguente "crisi di liquidità" via via allargata a tutto il mondo occidentale.
Ancora oggi non ci sono in concreto abbastanza soldi in circolazione (salari ,stipendi) necessari a far "girare bene" l'economia che gira come girano degli ingranaggi senza olio, ovvero destinati a rallentare e a bloccarsi.
Urge aggiungere olio (denaro liquido) al sistema o comunque spostarne da dove ristagna a dove ce ne è maggiormente bisogno. (Patrimoniale ? Rendite finanziarie ? Detassazione del lavoro ? ).

lunedì 12 settembre 2011

La Pubblica Amministrazione siamo noi (lo so, sono di parte, però...)


C’è una corrente di pensiero, negli ultimi anni assolutamente maggioritaria credo in gran parte del’occidente, che ritiene la Pubblica Amministrazione uno dei fattori limitativi dello sviluppo a causa dei suoi malfunzionamenti, della sua storica “rigidità” ed inefficienza. Questa posizione è all'origine di tutte quelle iniziative che puntano a ridurre la dimensione, l’importanza e specialmente i costi della “mano pubblica” per sostituirla con soluzioni alternative ispirate all'economia di mercato, alla libera concorrenza, all’iniziativa privata.
Sarebbe utile ricordare ai promotori di questa visione che la Pubblica Amministrazione non è una malattia, un ostacolo naturale od una credenza tribale destinata a scomparire con il progredire della scienza e della tecnologia, ma è un’invenzione dell’uomo, una necessità, la soluzione di un problema.
La Pubblica Amministrazione  compare nella storia in tempi relativamente recenti, prima – fino al medioevo -  potremmo dire che non esisteva. La Pubblica Amministrazione nasce e cresce di importanza essenzialmente in riferimento allo sviluppo di modelli partecipativi, è collegata alla democrazia. L’amministrazione è pubblica  perché è di tutti, altrimenti diventa amministrazione della cosa pubblica da parte di pochi o forse di uno solo, che è la monarchia o la dittatura.
Se in ossequio alle idee liberiste trasferissimo la gestione di tutti i servizi pubblici a dei privati potremmo arrivare al paradosso che pochi singoli –  e teoricamente addirittura uno solo (un monopolista)– divenga amministratore di tutto, raccolga le tasse, assuma e comandi gli eserciti, costruisca ospedali e scuole, assegni gli alloggi e perché no amministri la giustizia. Diverrebbe lui stesso lo Stato. Quando la Pubblica Amministrazione cede il passo all’impresa ed all’iniziativa capitalistica in certi settori inevitabilmente il sistema perde punti in termini di democrazia, tutti perdiamo un po’ di importanza e di libertà.
La dimensione e i costi della Pubblica Amministrazione potrebbero anzi essere considerati forse un indicatore di democrazia; li proprio dove la pressione fiscale è più elevata, si pensi ai paesi del Nord Europa, assistiamo a forme di democrazia più “compiuta” e senza che questo costituisca alcun limite allo sviluppo.
Se è vero che i malfunzionamenti e le inefficienze possono costituire un problema e un vincolo per l’avvio di certe iniziative, ovvero limitare un certo sviluppo economico, di contro la Pubblica Amministrazione costituisce l’unico ed il fondamentale custode e tutore degli interessi collettivi, da sempre e sempre più spesso in contrasto con gli interessi dei singoli o delle lobby.
La Pubblica Amministrazione è l’esecutore della volontà collettiva che viene “definita” attraverso gli strumenti della democrazia mediata di cui disponiamo (il Parlamento, il Governo). Molte disfunzioni sono anche da ricondurre a questa “mediazione” spesso causa di indicazioni contraddittorie e non sempre trasparenti; chissà se modelli e forme di democrazia diretta non siano in grado risolvere molti dei problemi della Pubblica Amministrazione.
Se più Pubblica Amministrazione vuol dire più democrazia, allora una Pubblica Amministrazione migliore è allo stesso tempo  presupposto e sintomo di un democrazia  moderna e funzionale, promotrice di forme di sviluppo  equilibrato ed  egualitario, sotteso a dinamiche redistributive della ricchezza, e non  mirato al solo incremento del PIL, incremento costato quella crescita delle disparità economiche sociali che stanno conoscendo molti paesi in quest’ultimo ventennio definibile post-comunista.
La ri-attribuzione di questo fondamentale ruolo di “specchio della democrazia” alla Pubblica Amministrazione è forse la prima e fondamentale innovazione della quale la politica dovrebbe farsi promotrice. Come uno specchio può deformare le immagini, la collettività spesso non si riconosce nella Pubblica Amministrazione e quello che vede non è se stessa, come dovrebbe essere, ma spesso solo la sua parte peggiore.
E’ vero, l’innovazione tecnologica è importante, come anche possono esserlo nuovi modelli organizzativi, ma fondamentale innovazione potrebbe essere – anche proprio attraverso la tecnologia  – l’avvicinamento della cittadinanza  alla Pubblica Amministrazione in un sistema di interrelazioni forti, qualcosa di non dissimile dal rapporto che ognuno di noi ha con l’amministratore del condominio dove abita. Si deve in qualche modo ridurre la distanza tra lo specchio e la collettività per ridurre le deformazioni.
Ovviamente questo sistema è tutto da definire, da regolamentare, ma lo scopo è quello di dare confidenza del fatto che la volontà e gli interessi collettivi siano effettivamente  “nelle corde” della Pubblica Amministrazione.
Nell’ambito dei procedimenti amministrativi, pure trasformati in maniera radicale negli anni attraverso la trasparenza amministrativa, non si riesce ancora a trasformare il rapporto singolo-P.A.  ma anche il rapporto cittadinanza-P.A. in qualcosa di utile e collaborativo e diverso da quella terribile “caccia all’errore” che contrappone la PA e i suoi interlocutori, e riempie di lavoro i tribunali amministrativi con conseguenti  ritardi  e sprechi di risorse.
Deve tornare ad essere ben chiaro il concetto che “la Pubblica Amministrazione siamo noi “ e non un soggetto terzo e lontano, un variabile indipendente ed imprevedibile, ma piuttosto un circolo, se vogliamo esclusivo, a cui tutti siamo iscritti come soci (cittadini) attivi.