mercoledì 9 settembre 2015

Mezzogiorno magnus et felix

Si studiano ancora oggi a scuola la Magna Grecia, la Campania felix, e tanti altri momenti della storia dove il Mezzogiorno del nostro paese è stato non solo un protagonista della Storia ma addirittura a volte l’interprete principale o comunque una delle Guest Star nel lungometraggio del progresso, della cultura, dell’innovazione ed anche della ricchezza. Tante cose sono cambiate da allora, il mondo, l’economia, i sistemi produttivi, l’organizzazione del potere, le popolazioni, tutto è diverso. Viene il sospetto che il Mezzogiorno, un po’ come Roma che è stata a capo dell’Impero, potesse essere grande solo in quell'epoca, in quel contesto, con quel sistema di scambi commerciali, con quelle tecnologie, in quella civiltà. E’ questa una visione strettamente “storica” dello sviluppo che racconta come la compresenza di una serie di fattori favorevoli, acqua, clima, manodopera, risorse naturali, nuove tecnologie, sono alla base della crescita di una civiltà, di una grande città, di una nazione. Ovvero un colpo di fortuna. Si potrebbe quindi pensare che il mezzogiorno, come l’antico Egitto, l’antica Grecia,  come Roma, ha già avuto il suo colpo di fortuna e forse il suo destino è quello delle città abbandonate dopo la corsa all’oro. Finito l’oro, finita la città. Essendo indisponibile quel determinato mix di fattori che in determinato tempo e luogo sono motori dello sviluppo, fattori destinati a cambiare nel tempo, non è possibile l’avvio di un auspicato processo di crescita anzi si assiste ad un continuo abbandono ed impoverimento di quei territori. E’ questa la condizione del mezzogiorno (penso all’ultimo rapporto SVIMEZ che disegna un quadro desolante)? Siamo all’inizio della fine? Tra qualche decennio avremo qualche capoluogo della Sicilia ricoperto dalla vegetazione come i templi Aztechi ? Ci sono una serie di indicatori che riguardano la popolazione che fanno temere di si. Alcuni luoghi stanno morendo. In questa lenta agonia iniziano a venir meno anche i fattori fondamentali per la crescita e lo sviluppo come i giovani, in particolare la famiglie giovani ed i loro figli, sostituite solo parzialmente da quelle degli immigrati. Immigrati che, come fattore di sviluppo economico, potremmo definire cinicamente “manodopera a basso costo”, in realtà in grado solo di riprodurre – senza poi riuscire a essere comunque competitivi  -  un modello di sviluppo (o forse un’economia di sussistenza), propria dei paesi ancora in via di sviluppo e lontani da una condizione di benessere diffuso (Cina, India, ecc.).
Dopo il sostanziale fallimento di anni e anni di intervento statale su quelle aree, in grado solo di rallentare, allontanare po’ nel tempo, un destino che sembra ormai segnato, viene il sospetto che sia stato tutto sbagliato e che in concreto si continui a sbagliare. Viene anche da domandarsi se non si fosse mai intervenuti in quei territori, se l’intervento straordinario nel mezzogiorno non fosse mai esistito come sarebbe andata la storia. Come sarebbe oggi il mezzogiorno senza le cattedrali nel deserto, senza le industrie abbandonate, senza tutti quei dipendenti pubblici, con pochissime infrastrutture, senza acqua? L’ondata migratoria del ‘900 non si sarebbe forse mai arrestata ed oggi disporremmo di enormi aree abbandonate, forse una grande riserva naturale.
In realtà le cose non sono andate così e negli anni si è fatto molto, tanto. Se confrontiamo il mezzogiorno del secondo dopoguerra con il mezzogiorno di oggi le cose sono parecchio cambiate. La Napoli di Totò e della Loren e la Napoli di oggi sono drammaticamente diverse (immagino in qualcuno più anziano una leggera nostalgia) . Per non parlare poi di Matera, della Puglia con l’acquedotto o delle coste della Sardegna (forse a certo turismo erano da preferirsi le pecore, ma ci vuole pazienza).
Sono stati in passato sicuramente fatti grandi errori, anche degli scempi, ma leggiamo ogni giorno di un mezzogiorno che resiste, che non vuole gettare la spugna. Troviamo moltissimi “singoli casi isolati” di successo nelle regioni del sud. Innovazione, brevetti, ricerca, tante storie positive di giovani del sud che però non ce la fanno a controbilanciare le tante disfunzioni, i fallimenti, i guasti del sistema, la criminalità, l’immobilismo di una pubblica amministrazione piuttosto malridotta. Le iniziative di successo sono spesso come piante in un vaso, crescono bene all’inizio, la terra è buona, concimata ed annaffiata regolarmente, ma poi il vaso non basta più, diventa piccolo, le radici soffrono, la pianta soffre e muore. E quando si prova a cambiare vaso qualcosa va spesso storto. Manca sempre qualcosa, il vaso, la terra, il concime.
Non vanno poi dimenticate le eccellenze del nostro mezzogiorno (le nostre miniere d’oro), alcune produzioni agricole sono uniche al mondo per l’assoluta qualità ed alcuni siti turistici sono di enorme interesse e ci si domanda sempre se siano adeguatamente valorizzatati. Troppo spesso si assiste a scelte sbagliate in questo settore, a volte si fa di tutto per limitare, depotenziare, una domanda che sembra volere crescere (penso a Pompei, sempre motivo di polemiche sulla sua conservazione e gestione) e dall’altro si promuovono con grandi investimenti siti che poi, a causa di altre situazioni al contorno, non riescono ad entrare nei circuiti turistici  e finiscono per essere quasi dimenticati (penso ai bronzi di Riace).
Che si può fare per avere una seconda età dell’oro, come può il paese fare in modo che il   suo mezzogiorno torni “grande e felice” ? Una delle possibilità, in un approccio assolutamente liberista, è quella di aspettare il colpo di fortuna. E’ possibile che il superenalotto della storia riproduca nel mezzogiorno un serie di condizioni favorevoli da renderlo un nuovo “Eldorado” (scoperta di nuove fonti di energia, elisir di lunga vita od anche qualche favorevole cambiamento climatico), e tutto improvvisamente cambi e ne risulti stravolto, ma sappiamo che la fortuna a volte va anche aiutata (l’oro va innanzitutto cercato).
Sarebbe fondamentale innanzitutto capire cosa si intende per sviluppo di un territorio. Ci aspettiamo in concreto dei cambiamenti, dei miglioramenti delle condizioni di vita, ma bisognerebbe decidere se non proprio un punto di arrivo almeno dei traguardi, delle configurazioni  auspicabili, una qualche idea, una visione del futuro. Perché, a pensarci bene, tra le possibili visioni del futuro ci può essere anche quella di un mezzogiorno sostanzialmente deindustrializzato, disabitato e sottoutilizzato, con un’economia  agricola e turistica in grado di assicurare un relativo benessere agli abitanti rimasti, un sistema di servizi ridotto al minimo indispensabile (anche meno). E’ in realtà la situazione di molti centri minori che vivono di agricoltura e di turismo, per lo più balneare e fortemente stagionalizzato. E’ un modello di sviluppo “bonsai” che è pensato per mantenere una dimensione limitata, richiede un costante piccolo impegno, poco concime, ma non può impegnare molte persone. E questo è il modello a cui si aspira l’emigrazione continuerà ancora a lungo, diminuiranno gli abitanti ed il PIL fino ad una stabilizzazione che vedrà gli abitanti rimasti vivere in condizioni probabilmente migliori. Sarà un territorio vasto ma con un’economia piccola, un mezzogiorno piccolo e felice. Sarebbe bello capire se esiste veramente questo punto di equilibrio o se altri fattori in realtà potrebbero entrare in gioco, se questa specializzazione sia o meno sostenibile e se il turismo come lo conosciamo oggi sia destinato a scomparire o a cambiare forma. Il turismo balneare è un fenomeno relativamente recente, poco più di un secolo, non è detto debba continuare per sempre, prendere il sole seminudi potrebbe – come fumare – diventare fortemente sconsigliato e.. addio spiagge.
Tra le possibili visioni all'opposto possiamo immaginare anche un mezzogiorno completamente diverso, fortemente produttivo, industrializzato, densamente abitato, in cui ogni possibile pezzo di terra è utilizzato da capannoni, fabbriche, fabbrichette, orti, serre, porti, centrali, strade (tante), ferrovie e stazioni (tantissime). Un territorio decisamente antropizzato come lo sono le regioni del nord Italia e molte parti del centro Europa. Se guardiamo una foto del nostro paese dal satellite di notte, con le luci delle città, abbiamo una chiara sensazione di quello che significa un territorio antropizzato, densamente abitato, possiamo correlare direttamente illuminazione notturna,  popolazione, produzione e ricchezza.
Possiamo anche immaginare delle soluzioni miste, con parti del territorio fortemente antropizzate ed altre a vocazione agricola, ma l’importante è immaginare un futuro per i territori consapevoli di ciò che determinate scelte comportano ed operare di conseguenza. Alcuni modelli di sviluppo sono concorrenti, lo sviluppo industriale confligge con quello turistico e con la tutela dell’ambiente (in generale la tutela assoluta dell’ambiente si trova spesso in conflitto con qualsiasi forma di sviluppo, e questo è un bel problema).
Bisognerebbe forse smetterla di scrivere programmi di sviluppo in cui c’è di tutto e per tutti, l’agriturismo, i grandi resort, i B&B, l’hi-tech, l’ingegneria genetica, e chi più ne ha più ne metta, facendo a gare ad inserire le ultime novità. Ora va per la maggiore la share economy, che è qualcosa che presuppone un mondo pesantemente informatizzato e connesso al web, mi aspetto qualche proposta nell’entroterra calabrese dove i telefonini non prendono. Forse dovremmo iniziare a disegnare, a sognare, le regioni del futuro, il mezzogiorno tra cento anni. La politica dovrebbe smettere di promettere finanziamenti per alcuni e strade per altri e invece proporre delle idee di futuro lasciando poi ai tecnici di studiare le soluzioni. La politica non deve pensare all’aeroporto ma deve pensare al  tipo di città che ha bisogno dell’aeroporto e proporre quella, non deve pensare al porto turistico ma deve trovare il sostegno dei cittadini per un centro turistico che prima o poi avrà bisogno di un porto più grande. La politica, che dovrebbe rappresentare le istanze e le aspirazioni dei cittadini, dovrebbe cercare di capire che tipo di futuro essi immaginano per la loro terra. Troppe volte si è proposto un modello indistinto, si è realizzata un’area industriale, voluta e capita da pochi, per poi trovare ostacoli insormontabili nel realizzare le strade e nell’insediare le aziende.
Il mezzogiorno dovrebbe finalmente chiedersi, nelle sue articolazioni territoriali, nelle regioni e nelle grandi città, cosa vuole fare da grande e prima ancora se vuole diventare grande. Sembra spesso un studente svogliato che preferisce ripetere l’anno, sorbirsi un fiume di ripetizioni e di rimproveri, lamentarsi in continuazione da un lato di non essere portato per lo studio e dall’altro che nessuno lo aiuta ne a studiare ne ad imparare un mestiere; poi se vai a vedere quando vuole sa fare tutto, è un mago del pc, ma appena può scappa al bar con gli amici o in spiaggia a giocare. Fa pure qualche lavoretto, in nero, quanto basta per pagarsi qualche viaggio. E’ il momento di scegliere, prendere un riferimento, un modello, e quindi puntare a raggiungerlo. Meglio un’idea sola ben chiara che tante idee confuse. Insomma darsi da fare indipendentemente se l’obiettivo – il benchmark -- è il Principato di Monaco oppure l’isola di Pasqua. Solo per chiarezza le favelas brasiliane non sono da considerare un obiettivo da prendere come riferimento (cerchiamo di migliorare, anche se alla criminalità organizzata il modello potrebbe non dispiacere per la grande disponibilità di manodopera; alcuni quartieri delle nostre città del mezzogiorno hanno un loro perché).
Se quindi si aspira a diventare una Montecarlo del Sud la prima cosa da fare è garantire la sicurezza, che nessuno rubi, borseggi, rapisca chi viene ad investire il proprio denaro (legalità). E prima di tutto occorre che nessuno faccia il furbo, con nessuno (basta stereotipi). Perché a Montecarlo certe cose non si fanno. Poi magari si penserà al casinò. Se si pensa alla Costa Smeralda come riferimento forse il sistema della infrastrutture deve venire prima degli alberghi. Se il posto è bello, facilmente raggiungibile, sicuro, poi le case, gli alberghi, le attività commerciali, arrivano da sole.
In realtà decidere è la parte più difficile perché se il richiamo della ricchezza è forte, le luci della città attraenti, anche la calma e la tranquillità (l’inedia) hanno il loro fascino. Così i giovani meridionali, un po’ come una gran parte del mezzogiorno (penso alle aree più isolate), vivono questo conflitto anche internamente ed alcuni emigrano perché non possono aspettare che il luogo dove sono nati offra le stesse possibilità di lavoro del nord Europa, ed altri si adeguano ad uno stile di vita “bonsai”, con poche aspirazioni e pretese, sperando che il tempo sistemi le cose. Le belle storie di successo sono quelle di quei giovani che resistono e creano da soli le loro opportunità di lavoro, eppure il contesto non sembra aiutarli a sufficienza, come se loro idea, il loro modello di futuro, non sia poi così condiviso.
Mi domando se in queste situazioni non sia necessario un intervento esterno, qualcuno che decida per tutti, un cesare, un imperatore che costruisca (o ricostruisca) ponti, strade, castelli, porti e, visto che siamo ai giorni nostri, aeroporti, centrali, fabbriche, università, reti informatiche.

Anche gli imperatori hanno però sempre avuto qualche problema ad amministrare le province lontane da Roma, eppure non ci pensavano due volte a mandare gli eserciti.