giovedì 22 dicembre 2011

Articolo 18 .... ma mi faccia il piacere !

Si è aperta un'ingiustificata questione sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Leggiamo il pezzettino incriminato: "....il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro." 
...senza giusta causa o giustificato motivo..... 
Io la interpreto che è possibile licenziare chiunque purché se ne abbia una motivazione concreta. Il giudice decide sulla bontà (giustezza) della motivazione. La domanda che si pone è perché si dovrebbe licenziare qualcuno senza motivo ? Infatti c'è sempre un motivazione per un licenziamento e lo scontro che avviene è tra due discrezionalità: quella del datore di lavoro che ritiene giusto il licenziamento per le "sue" ragioni e quella del giudice che, prendendo i considerazione le posizioni del lavoratore, deve decidere se il datore di lavoro abbia o no fondati motivi.
Lo Statuto tutela il lavoratore principalmente da quelle che potrebbero essere motivazioni pretestuose, umorali, che il datore di lavoro potrebbe opporre; d'altro canto nessuna tutela è ovviamente garantita al lavoratore pigro, improduttivo, truffaldino che, a ragione, può essere licenziato.
Il problema è forse quello che nel nostro paese, forse in considerazione della natura del tessuto produttivo, sempre troppo di stampo padronale, proprietario più che imprenditore, le ragioni concrete, aziendali, produttive con grande facilità si mescolano a fattori pretestuosi, personalistici, con la conseguenza che si cerca  regolarmente a licenziare per ottimi motivi la persona sbagliata, o al contrario si utilizzano motivazioni deboli per  soggetti che invece meriterebbero, anche a tutela dei colleghi, di essere defenestrati.
Credo che l'articolo 18, non solo non può essere toccato, ma addirittura dovrebbe essere esteso a qualsiasi lavoratore dipendente, precariato incluso. Non si capisce infatti la discriminazione tra piccole e grandi aziende, crea differenti diritti tra lavoratori che hanno un vago sapore di incostituzionalità (vedi art. 3 e 4 della Costituzione) o comunque di mancata - o incompleta - attuazione del dettato costituzionale.
Diversa è la questione della giustizia. La discrezionalità del giudice nel valutare le motivazioni dovrebbe essere esercitata in tempi rapidi, rapidissimi. Nel lavoro il tempo è, necessariamente, denaro. L'incertezza costa, e molto, a tutti, lavoratori e imprese. Forse velocizzare e rendere tempestivo l'intervento del giudice, con forme processuali innovative, espressamente mirate a contenere i tempi nell'ordine di pochi giorni, settimane al massimo, potrebbe forse risolvere alcuni dei problemi che l'articolo 18 sembra costituire per l'aumento della dimensione delle aziende che non assumono perché poi non possono licenziare.
Un processo rapido (anche una sorta di arbitrato del lavoro), in cui il giudice tenga conto, magari affiancato da un tecnico, dei fattori aziendali, produttivi, in concreto di quelle che possono essere le giuste motivazioni dell'azienda, e dall'altro lato anche della posizione del lavoratore - comunque da tutelare, potrebbe risolvere alla radice molti problemi del mondo del lavoro; questo addirittura con maggiori tutele per il lavoratore e garanzie per l'impresa; magari riconoscendo la possibilità di reintegro eventualmente condizionato a comportamenti attivi del lavoratore, da valutare caso per caso.
Un imprenditore, anni fa, paragonava un'assunzione ad un matrimonio. In certi casi, diceva, decisamente squilibrato (un po' come in certi matrimoni) per i rischi assunti  in modo diverso dalle parti. Come nelle separazioni e nei divorzi, anche nei licenziamenti, ognuno ha le sue ragioni. Il buon senso vorrebbe che sia molto meno difficile, meno traumatico, interrompere un rapporto di lavoro, che divorziare. Oggi, spesso, non è così.

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