
Dopo il sostanziale fallimento di
anni e anni di intervento statale su quelle aree, in grado solo di rallentare,
allontanare po’ nel tempo, un destino che sembra ormai segnato, viene il
sospetto che sia stato tutto sbagliato e che in concreto si continui a
sbagliare. Viene anche da domandarsi se non si fosse mai intervenuti in quei
territori, se l’intervento straordinario nel mezzogiorno non fosse mai esistito
come sarebbe andata la storia. Come sarebbe oggi il mezzogiorno senza le
cattedrali nel deserto, senza le industrie abbandonate, senza tutti quei
dipendenti pubblici, con pochissime infrastrutture, senza acqua? L’ondata
migratoria del ‘900 non si sarebbe forse mai arrestata ed oggi disporremmo di
enormi aree abbandonate, forse una grande riserva naturale.
In realtà le cose non sono andate
così e negli anni si è fatto molto, tanto. Se confrontiamo il mezzogiorno del
secondo dopoguerra con il mezzogiorno di oggi le cose sono parecchio cambiate.
La Napoli di Totò e della Loren e la Napoli di oggi sono drammaticamente
diverse (immagino in qualcuno più anziano una leggera nostalgia) . Per non
parlare poi di Matera, della Puglia con l’acquedotto o delle coste della
Sardegna (forse a certo turismo erano da preferirsi le pecore, ma ci vuole
pazienza).
Sono stati in passato sicuramente
fatti grandi errori, anche degli scempi, ma leggiamo ogni giorno di un
mezzogiorno che resiste, che non vuole gettare la spugna. Troviamo moltissimi
“singoli casi isolati” di successo nelle regioni del sud. Innovazione, brevetti,
ricerca, tante storie positive di giovani del sud che però non ce la fanno a
controbilanciare le tante disfunzioni, i fallimenti, i guasti del sistema, la
criminalità, l’immobilismo di una pubblica amministrazione piuttosto
malridotta. Le iniziative di successo sono spesso come piante in un vaso,
crescono bene all’inizio, la terra è buona, concimata ed annaffiata
regolarmente, ma poi il vaso non basta più, diventa piccolo, le radici
soffrono, la pianta soffre e muore. E quando si prova a cambiare vaso qualcosa
va spesso storto. Manca sempre qualcosa, il vaso, la terra, il concime.
Non vanno poi dimenticate le
eccellenze del nostro mezzogiorno (le nostre miniere d’oro), alcune produzioni
agricole sono uniche al mondo per l’assoluta qualità ed alcuni siti turistici
sono di enorme interesse e ci si domanda sempre se siano adeguatamente
valorizzatati. Troppo spesso si assiste a scelte sbagliate in questo settore, a
volte si fa di tutto per limitare, depotenziare, una domanda che sembra volere
crescere (penso a Pompei, sempre motivo di polemiche sulla sua conservazione e
gestione) e dall’altro si promuovono con grandi investimenti siti che poi, a
causa di altre situazioni al contorno, non riescono ad entrare nei circuiti
turistici e finiscono per essere quasi
dimenticati (penso ai bronzi di Riace).
Che si può fare per avere una
seconda età dell’oro, come può il paese fare in modo che il suo mezzogiorno torni “grande e felice” ?
Una delle possibilità, in un approccio assolutamente liberista, è quella di
aspettare il colpo di fortuna. E’ possibile che il superenalotto della storia
riproduca nel mezzogiorno un serie di condizioni favorevoli da renderlo un
nuovo “Eldorado” (scoperta di nuove fonti di energia, elisir di lunga vita od
anche qualche favorevole cambiamento climatico), e tutto improvvisamente cambi
e ne risulti stravolto, ma sappiamo che la fortuna a volte va anche aiutata
(l’oro va innanzitutto cercato).
Sarebbe fondamentale innanzitutto
capire cosa si intende per sviluppo di un territorio. Ci aspettiamo in concreto
dei cambiamenti, dei miglioramenti delle condizioni di vita, ma bisognerebbe
decidere se non proprio un punto di arrivo almeno dei traguardi, delle
configurazioni auspicabili, una qualche
idea, una visione del futuro. Perché, a pensarci bene, tra le possibili visioni
del futuro ci può essere anche quella di un mezzogiorno sostanzialmente
deindustrializzato, disabitato e sottoutilizzato, con un’economia agricola e turistica in grado di assicurare
un relativo benessere agli abitanti rimasti, un sistema di servizi ridotto al minimo
indispensabile (anche meno). E’ in realtà la situazione di molti centri minori
che vivono di agricoltura e di turismo, per lo più balneare e fortemente
stagionalizzato. E’ un modello di sviluppo “bonsai” che è pensato per mantenere
una dimensione limitata, richiede un costante piccolo impegno, poco concime, ma
non può impegnare molte persone. E questo è il modello a cui si aspira
l’emigrazione continuerà ancora a lungo, diminuiranno gli abitanti ed il PIL
fino ad una stabilizzazione che vedrà gli abitanti rimasti vivere in condizioni
probabilmente migliori. Sarà un territorio vasto ma con un’economia piccola, un
mezzogiorno piccolo e felice. Sarebbe bello capire se esiste veramente questo
punto di equilibrio o se altri fattori in realtà potrebbero entrare in gioco,
se questa specializzazione sia o meno sostenibile e se il turismo come lo
conosciamo oggi sia destinato a scomparire o a cambiare forma. Il turismo
balneare è un fenomeno relativamente recente, poco più di un secolo, non è
detto debba continuare per sempre, prendere il sole seminudi potrebbe – come
fumare – diventare fortemente sconsigliato e.. addio spiagge.
Tra
le possibili visioni all'opposto possiamo immaginare anche un mezzogiorno
completamente diverso, fortemente produttivo, industrializzato, densamente
abitato, in cui ogni possibile pezzo di terra è utilizzato da capannoni,
fabbriche, fabbrichette, orti, serre, porti, centrali, strade (tante), ferrovie
e stazioni (tantissime). Un territorio decisamente antropizzato come lo sono le
regioni del nord Italia e molte parti del centro Europa. Se guardiamo una foto
del nostro paese dal satellite di notte, con le luci delle città, abbiamo una
chiara sensazione di quello che significa un territorio antropizzato,
densamente abitato, possiamo correlare direttamente illuminazione
notturna, popolazione, produzione e
ricchezza.
Possiamo anche immaginare delle
soluzioni miste, con parti del territorio fortemente antropizzate ed altre a vocazione
agricola, ma l’importante è immaginare un futuro per i territori consapevoli di
ciò che determinate scelte comportano ed operare di conseguenza. Alcuni modelli
di sviluppo sono concorrenti, lo sviluppo industriale confligge con quello
turistico e con la tutela dell’ambiente (in generale la tutela assoluta dell’ambiente
si trova spesso in conflitto con qualsiasi forma di sviluppo, e questo è un bel
problema).
Bisognerebbe forse smetterla di
scrivere programmi di sviluppo in cui c’è di tutto e per tutti, l’agriturismo,
i grandi resort, i B&B, l’hi-tech, l’ingegneria genetica, e chi più ne ha
più ne metta, facendo a gare ad inserire le ultime novità. Ora va per la
maggiore la share economy, che è qualcosa che presuppone un mondo pesantemente
informatizzato e connesso al web, mi aspetto qualche proposta nell’entroterra
calabrese dove i telefonini non prendono. Forse dovremmo iniziare a disegnare,
a sognare, le regioni del futuro, il mezzogiorno tra cento anni. La politica
dovrebbe smettere di promettere finanziamenti per alcuni e strade per altri e
invece proporre delle idee di futuro lasciando poi ai tecnici di studiare le
soluzioni. La politica non deve pensare all’aeroporto ma deve pensare al tipo di città che ha bisogno dell’aeroporto e
proporre quella, non deve pensare al porto turistico ma deve trovare il
sostegno dei cittadini per un centro turistico che prima o poi avrà bisogno di
un porto più grande. La politica, che dovrebbe rappresentare le istanze e le
aspirazioni dei cittadini, dovrebbe cercare di capire che tipo di futuro essi
immaginano per la loro terra. Troppe volte si è proposto un modello indistinto,
si è realizzata un’area industriale, voluta e capita da pochi, per poi trovare
ostacoli insormontabili nel realizzare le strade e nell’insediare le aziende.
Il mezzogiorno dovrebbe finalmente
chiedersi, nelle sue articolazioni territoriali, nelle regioni e nelle grandi
città, cosa vuole fare da grande e prima ancora se vuole diventare grande.
Sembra spesso un studente svogliato che preferisce ripetere l’anno, sorbirsi un
fiume di ripetizioni e di rimproveri, lamentarsi in continuazione da un lato di
non essere portato per lo studio e dall’altro che nessuno lo aiuta ne a
studiare ne ad imparare un mestiere; poi se vai a vedere quando vuole sa fare
tutto, è un mago del pc, ma appena può scappa al bar con gli amici o in
spiaggia a giocare. Fa pure qualche lavoretto, in nero, quanto basta per
pagarsi qualche viaggio. E’ il momento di scegliere, prendere un riferimento,
un modello, e quindi puntare a raggiungerlo. Meglio un’idea sola ben chiara che
tante idee confuse. Insomma darsi da fare indipendentemente se l’obiettivo – il
benchmark -- è il Principato di Monaco oppure l’isola di Pasqua. Solo per
chiarezza le favelas brasiliane non sono da considerare un obiettivo da
prendere come riferimento (cerchiamo di migliorare, anche se alla criminalità
organizzata il modello potrebbe non dispiacere per la grande disponibilità di
manodopera; alcuni quartieri delle nostre città del mezzogiorno hanno un loro
perché).
Se quindi si aspira a diventare
una Montecarlo del Sud la prima cosa da fare è garantire la sicurezza, che
nessuno rubi, borseggi, rapisca chi viene ad investire il proprio denaro
(legalità). E prima di tutto occorre che nessuno faccia il furbo, con nessuno
(basta stereotipi). Perché a Montecarlo certe cose non si fanno. Poi magari si
penserà al casinò. Se si pensa alla Costa Smeralda come riferimento forse il
sistema della infrastrutture deve venire prima degli alberghi. Se il posto è
bello, facilmente raggiungibile, sicuro, poi le case, gli alberghi, le attività
commerciali, arrivano da sole.
In realtà decidere è la parte più
difficile perché se il richiamo della ricchezza è forte, le luci della città
attraenti, anche la calma e la tranquillità (l’inedia) hanno il loro fascino.
Così i giovani meridionali, un po’ come una gran parte del mezzogiorno (penso
alle aree più isolate), vivono questo conflitto anche internamente ed alcuni
emigrano perché non possono aspettare che il luogo dove sono nati offra le
stesse possibilità di lavoro del nord Europa, ed altri si adeguano ad uno stile
di vita “bonsai”, con poche aspirazioni e pretese, sperando che il tempo
sistemi le cose. Le belle storie di successo sono quelle di quei giovani che
resistono e creano da soli le loro opportunità di lavoro, eppure il contesto
non sembra aiutarli a sufficienza, come se loro idea, il loro modello di
futuro, non sia poi così condiviso.
Mi domando se in queste
situazioni non sia necessario un intervento esterno, qualcuno che decida per tutti,
un cesare, un imperatore che costruisca (o ricostruisca) ponti, strade,
castelli, porti e, visto che siamo ai giorni nostri, aeroporti, centrali,
fabbriche, università, reti informatiche.
Anche gli imperatori hanno però
sempre avuto qualche problema ad amministrare le province lontane da Roma, eppure non ci pensavano due volte a mandare gli eserciti.